Lorenzo è mio figlio.
Ha iniziato ad avere qualche difficoltà fin dalla scuola materna: era un bimbo iperattivo con disturbi dell’attenzione e già in fase di pregrafismo aveva mostrato difficoltà a mantenere una corretta impugnatura degli strumenti di scrittura.
Arrivati alle elementari i problemi sono diventati ancora più evidenti e abbiamo intrapreso un percorso con una neuropsicologa con la quale collaboravo e con un bravissimo pedagogista che lo ha seguito per due anni dal punto di vista comportamentale, attentivo e dell’iperattività.
Dalla valutazione della neuropsicologa era emersa una diagnosi di DSA (in quegli anni si cominciava appena a parlare di ADHD).
Arrivato in terza elementare è emersa la necessità di una valutazione in Asl, ma i tempi sono lunghissimi e veniamo chiamati solamente a metà dell’anno successivo.
La valutazione (effettuata con un test obsoleto che non includeva il test adattivo) fa emergere un quadro di lieve ritardo cognitivo.
Da quel momento a Lorenzo viene assegnato l’insegnante di sostegno per tutti e tre gli anni delle medie. Il primo anno procede bene, ma nei due anni successivi la sua educazione scolastica non viene tarata con le metodologie adatte a un adeguato apprendimento per DSA.
In quel periodo mi occupavo prevalentemente di Disturbi Neuropsicologici nell’adulto, ma cominciavo a studiare i DSA e a farmi domande sulla testistica utilizzata per valutare mio figlio; in particolare sulla mancanza del test adattivo, basilare per una corretta diagnosi differenziale tra DSA o ritardo cognitivo.
Ho fatto rivalutare Lorenzo, privatamente, da un luminare sui DSA, il Prof. Giacomo Stella: se il DSA è stato confermato in tutta la sua imponenza ed importanza, in comorbidità con ADHD, il suo cognitivo è risultato assolutamente nella norma.
A questo punto mi sono impegnata per ottenere prima la convalida della nuova diagnosi da parte dell’Asl e poi che il suo diploma di terza media non fosse un semplice attestato, ma un vero e proprio diploma, così come la legge prevede per gli studenti che, avendo un PEI (Piano Educativo Individualizzato) ne raggiungano gli obiettivi, corrispondenti a quelli della classe.
Quanti genitori si potrebbero trovare in questa situazione senza le giuste informazioni?
Queste domande me le porto nel cuore ogni volta che devo valutare un PEI o un PDP per qualcuno dei miei pazienti. Li voglio vedere, analizzare, capire nei minimi dettagli, perché sono documenti importanti che potrebbero fare la differenza nella vita dei bambini e dei ragazzi che li dovranno adottare.
Quello che mi ha insegnato questa esperienza, più di ogni altra cosa, è a non fermarmi mai di fronte a risultati che non mi convincono e soprattutto ad ascoltare i genitori, sempre.
Federica Ponti